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Pubblicato Venerdì 20 Gennaio 2006 da indokush
 
 

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Vi propongo un capitolo tratto da un libro di Nelson George dal titolo altisonante di 'hip hop America'. In questa parte del libro descrive l'importanza della comunità latina per il breaking alla fine degli anni '70.

....semplicemente perché i break dancer sono i più ascetici adepti della religione hip hop, ma anche gli eretici più radicali e agguerriti.
Negli ultimi, caldissimi anni il loro stile è stato clonato, celebrato, sfruttato, digerito e risputato dalla macchina della cultura pop.
La break dance non era l’unico stile al quale ballare l’hip hop negli anni Ottanta: a una festa potevi metterti a ballare il Freak, il Smurf, il Patty Duke o al massimo il Wop.
Erano tutti balli divertenti, passi semplici, relativamente socievoli, diciamo. Al contrario, la break dance era spettacolare, pericolosa e profondamente fondata sulla competizione.La storia della break dance, come quella dei graffiti, ha avuto due fasi.
La prima risale agli anni Settanta e ha coinciso con l’era della musica disco. Ciò che venne definito 'breaking' in realtà altro non era se non un miscuglio di passi presi da diverse fonti: i passi strusciati di James Brown; i cubisti dinamici di Soul Train, lo spettacolo televisivo di Don Cornelius perennemente trasmesso in replica (...)le spaccate e i salti atletici dei film di kung fu – elementi tutti rimaneggiati e provvisti di nuova energia grazie all’immaginazione dei neri di New York.

Stando ai maestri, i primi breaker erano membri di gang che ballavano in piedi all’angolo di qualche strada, avevano nomi improbabili tipo El Dorado, Sasa, Mr. Rock e Nigger Twins ed erano inequivocabilmente e sfrontatamente Negri.
Per loro la break dance era solo un modo per ballare a tempo, non uno stile di vita.
Nella comunità afroamericana la break passò come una moda. E sarebbe stata completamente dimenticata se non ci fosse stato lo zelo religioso dei ragazzini portoricani.

In Rap Pages Trac 2, del fondamentale gruppo break Starchild La Rock, ricorda la doppia vita della break dance con queste parole: 'Vedi, allora le jam erano praticamente novanta per cento roba da neri: i b-boys erano tutti neri, ma per loro la break dance era una specie di fase, una moda.
Ti dico questa storia, perché avresti dovuto vedere la loro faccia quando anche noi ci siamo messi a fare la break.
Ogni volta che un ispanico si metteva a ballare, dicevano cose tipo: ‘Yo, sarà mica break dance quella’. Per loro la moda era finita a metà degli anni Sessanta e si erano messi a fare altre storie, tipo i graffiti o i DJ.
Ma noi tiravamo su un casino di gente che veniva a vederci. In disco al centro del cerchio c’era sempre qualche ragazzo ispanico che ballava.
E quando Charles Chase, che era portorico, ha iniziato a fare il DJ, be’ per noi è stata una botta perché finalmente c’era un latino che poteva rappresentarci, capito?
Non importava più cosa dicevano i neri: avevamo il nostro DJ portorico e avremmo ballato alla portorica'.

Sono stati i latini a trasformare la break dance in una competizione.
Nella migliore delle tradizioni della criminalità giovanile, i gruppi di break dance si sfidavano in un campo da basket, all’angolo di qualche strada, nelle fermate della metropolitana.
Armati di pezzi di cartone e linoleum, niente più coltelli o pistole, si mettevano in cerchio, due alla volta e iniziava il duello: ciascuno cercava di imitare le mosse dell’altro, finché uno dei due gruppi non veniva dichiarato vincitore.
Come il basket, anche la break dance era uno sport di gruppo che però confidava sulle capacità del singolo.
Una forma di lotta stilizzata che evocava i combattimenti e le mosse di kung fu dei film di Bruce Lee.
Il cappello girato al contrario, indossato per poter ruotare sulla testa, simboleggiava anche un atteggiamento aggressivo che informava quella cultura.
Grandmaster Flash una volta ha detto: 'Quando i ballerini cominciavano a darci dentro davvero e si pigliavano a calci e spingevano la gente a terra, allora il cappellino si spostava di traverso.
Era come dire, tipo: ‘Adesso non sto più ballando, adesso ti faccio male’'.

La fama della break dance scoppiò nel 1984 grazie a un documentario della PBS, Style Wars, accompagnato da tre filmetti di Hollywood: Beat Street, Breakin’ e Breakin’ 2: Eletric Boogaloo.
E i breaker cominciarono a comparire in alcuni video: dal classico R&B della diva Gladys Knight, Save the Overtime (For Me), fino a Once in a Lifetime dei funkartisti Talking Heads.

Ma il contributo più sostanziale della break dance fu la consacrazione del ruolo dei ballerini ispanici nello sviluppo musicale dell’hip hop.
It’s just Begun di Jimmy Castor, Apache dell’Incredibile Bongo Band e Dance to the Drummer’s Beat di Herman Kelly non diventarono dei successi hip hop in un vuoto assoluto: i DJ mettevano su quei dischi lì, li scoprivano, ma spesso erano i breaker che ne attestavano il successo.
Il loro gusto, il modo in cui reclamavano quelle canzoni per ballarci dietro la break hanno influenzato i DJ e i rapper che hanno aperto i sentieri del sound hip hop.

 
 
 

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