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Storie » Non si vive di solo surf! |
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Sono tornato. Per motivi che per ragioni di sicurezza non posso spiegare in un’arena pubblica come questo blog, la nostra esperienza palestinese si è dovuta interrompere prima del tempo.
Adesso potrei dire “finalmente a casa”, ma non posso farlo. La mia casa è il mondo e sento che il mio posto è dove le contraddizioni del mondo sono più forti. I miei occhi hanno visto e ora la vita non può più scorrere come prima. Questi dodici giorni mi esplodono dentro, non possono essere solo un segmento. La traccia che lasciano è indelebile e condizionerà buona parte delle mie scelte future. Il mio corpo è qui come le lacrime che sempre più spesso fatico ad asciugare ma tutto me sta ancora lì, con i miei fratelli palestinesi, accanto ai bambini dei campi profughi. Said è fermo a un check point israeliano, sotto la pioggia o sotto il sole per ore e ore solo perché è arabo e magari musulmano. Said è murato vivo in una casa diroccata di Tulkarem o di Bethlemme e non può guardare la sua famiglia che per ironia della sorte vive dall’altra parte del muro. Said è a Hebron sporco dell’immondizia che i coloni israeliani gli lanciano addosso dall’alto del loro insediamento nel centro della città. Said è in una stanza piccola con i vetri neri di fronte a un agente di sicurezza che lo ha prelevato da un coach e lo interroga per ore cercando di fargli saltare i nervi. Said è a Gaza senza neanche l’acqua necessaria a pulirsi il culo dopo aver defecato perché i coloni ebrei se la succhiano tutta per innaffiare i fiorellini dei propri giardinetti collocati ai piedi di graziose villette a schiera, quegli stessi coloni le cui lacrime fanno tanto impietosire i quotidiani italiani che mai si sono preoccupati delle lacrime versate da milioni e milioni di palestinesi trattati come animali. Said è nel campo profughi di Jenin con un kalashnikov a tracollo, in attesa che l’esercito arrivi per distruggere e uccidere. L’unica soluzione è uccidere prima. Said è in stato di shock sotto le macerie di una casa abbattuta con di fronte il cadavere di sua madre uccisa a trivellate e del suo fratellino di due settimane che un soldato gli ha scaraventato per terra di fronte agli occhi. Said è solo, disperato, senza più nessuna spalla su cui piangere, senza più neanche le lacrime per piangere, si riempie di tritolo, va a Tel a Viv, entra in un locale dove tanti giovani israeliani bevono e si divertono mentre i suoi fratelli sono morti di fame o di fuoco. Said sente solo l'odio e il peso di quell'ingiustizia.
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