Non mi era mai capitato di passare così tanto tempo lontano da casa.
Poi figuriamoci, ancor meno mi era capitato di trovarmi dall’altra parte del mondo, dove il colore del lutto è il bianco, dove il numero che porta sfiga è il 4, dove il classico saluto da surfista (pollice e mignolo) significa semplicemente ‘il numero 6’.
Non ci sono onde, non c’è l’odore del mare.
‘Bei’ vuol dire ‘nord’, ‘Jing’ vuol dire ‘capitale’. La capitale del nord, letteralmente.
Un tappeto di grattacieli, strade che si intrecciano, negozi sgangherati, macchine che vanno da tutte le parti, fabbriche, ingorghi, sudiciume, biciclette, templi di chissà quale dio o imperatore, gente che sputa in terra, ricchi col Cayenne, poveri che arrancano, parrucchieri che tagliano i capelli per strada, banchi che preparano cose per me non commestibili, smog, puzza, casino.
Ci si aspetterebbe un diario della disperazione, nel momento in cui uno come me va a scrivere il suo ricordo di questa esperienza.
Ebbene, no.
Devo ammettere lo sconforto dei primi giorni, poi qualcosa è cambiato. C’è una prima fase nella quale ti ribelli, dopodichè ti lasci andare, ti fondi col posto in cui ti trovi, cominci sul serio a vivere. E scopri che anche in un posto come questo vivi le stesse emozioni che vivi a casa tua.
Sono stato sereno, come i bambini che giocano con gli aquiloni nel giardino sotto il mio albergo.
Sono stato felice come i ragazzi che escono in bicicletta dalle fabbriche di TangShan, alla fine di una giornata lavorativa.
Mi sono sentito abbandonato, come un operaio che dorme nel portacarichi di un motocarro che si avvia tra i campi di arachidi di Xi’an.
Sono stato triste, disperato, come una puttana di un bordello di ZhengZhou.
Sono stato incazzato come i venditori con cui ho litigato per tirare giù i prezzi.
Mi sono sentito rassegnato, come tante persone che vedo nell’hutong che percorro per tornare a casa.
Mi sono sentito stanco, come un vecchio che si inarca sui pedali del suo triciclo, stracarico di rami, su una strada sterrata di Luoyang.
Mi sono perso mille volte, e mille volte mi sono ritrovato.
Ho stretto mani, abbracciato persone, tirato ceffoni, portato regali, ricevuto regali, conosciuto amici che non dimenticherò mai.
Sono stato in posti talmente reconditi che la gente del luogo m’ha fatto la foto perché non aveva mai visto uno coi miei tratti somatici.
Mi sono ubriacato, sono scappato da locali, da delinquenti e da poliziotti. Mi hanno cacciato dal ristorante, mi hanno invitato a cena a casa loro. Mi hanno insegnato a fare i jaozè, gli ho insegnato a fare il pesto e il caffè. Ho dormito e mangiato in posti che nemmeno immaginavo esistessero, nel bene e nel male.
Adesso che mi riavvio verso casa, e torno alle mie onde, ai miei profumi, dai miei amici e dalla mia famiglia, non riesco a essere completamente felice.
Mi viene da pensare che qualcosa in me è cambiato. Invece qualche sera fa stavo tornando a casa, attraversavo Picai Hutong, un quartiere storico, quando incontro dei ragazzetti.
Stanno giocando a badminton. Si sono fermati perché probabilmente erano incuriositi da uno straniero che passasse da quelle parti.
Mi tirano dentro a giocare con loro. Poso il portatile, mi levo la giacca e perdo mezz’ora buona a giocare con questi ragazzi.
E’ stato proprio in quel momento che ho capito che non era cambiato assolutamente nulla. Possono cambiare i luoghi, le persone con cui mi confronto, e talvolta possono pure mancare le cose a te care, come la tua famiglia o il mare.
L’importante è che non cambi mai quello che ti porti dentro, appresso.
Non so se tornerò mai a Beijing. Non so se vedrò mai più i grattacieli di Shanghai, i sobborghi di Wuhuan, i negozietti di Sanlitun. Però adesso è ora di tornare a casa, non ho tempo di pensarci. Quantomeno, posso essere tranquillo che dentro di me non sia cambiato assolutamente nulla; al limite, ho imparato a giocare a badminton.
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